1. La situazione dei ritardati pagamenti in Italia
Il tema del ritardo con cui la P.A. provvede al pagamento dei corrispettivi inerenti all'esecuzione dei contratti pubblici suscita, ormai da anni, l'interesse (ma soprattutto l'allarme) degli imprenditori che operano nel mercato italiano.
Le dimensioni del problema sono emerse con chiarezza nel corso dell'ultima Relazione annuale del Presidente dell'Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici: "La questione in esame si pone in tutta la sua gravità soprattutto per le imprese che stipulano contratti con la Pubblica Amministrazione, le quali, in misura ancor più forte rispetto alle aziende che operano con committenze private, sono da sempre soggette al gravame di un onere aggiuntivo rappresentato dall'ulteriore costo che le stesse devono sostenere per far fronte al gap, spesso di proporzioni assai considerevoli, che si viene a determinare tra il momento della liquidazione dei costi gestionali e quello dell'incasso del corrispettivo pattuito; onere di cui ovviamente non si può non tener conto nella determinazione del prezzo offerto in sede di gara pubblica. ... La conseguenza è che questo tipo di mercato finisce con il privilegiare le grandi imprese e colpisce, in maniera irreversibile, le piccole e medie imprese che rischiano, pertanto, di uscire definitivamente dal sistema. Il tutto, come è facile intuire, determina conseguenze di rilevante entità sulla concorrenza, falsando, in misura considerevole, il regolare andamento del mercato".
In effetti, i dati numerici divulgati dall'Autorità di Vigilanza restituiscono un'immagine preoccupante: i tempi di pagamento oscillano in un range compreso tra un minimo di 92 giorni ed un massimo di 664 giorni. L'entità dei ritardi mediamente accumulati è circa doppia rispetto a quanto si registra nel resto dell'Unione Europea: mediamente 128 giorni contro i 65 che si computano a livello europeo.
Il ritardo è per lo più imputato ai tempi di emissione dei certificati di regolare esecuzione (46,3%) e dei mandati di pagamento (29,6%) da parte delle stazioni appaltanti e, ancor più in generale, a lentezze che derivano da vischiosità burocratiche interne alla Pubblica Amministrazione (32,5%).
La presunta esposizione debitoria della P.A., calcolata sulla base della stima effettuata dalle associazioni interpellate dall'Autorità di Vigilanza, ammonterebbe a circa 37 miliardi di euro (una somma pari al 2,4 per cento del PIL nazionale), dei quali una parte consistente deriverebbe dalla gestione del sistema sanitario e dalla raccolta dei rifiuti solidi urbani.
La medesima Autorità ha sottolineato, nella Relazione del 2009, come la problematica sia particolarmente avvertita dalle piccole e medie imprese che, soprattutto nell'attuale congiuntura economica di difficile accesso al credito bancario, risentono in maniera grave della mancanza di liquidità.
Ma le stesse amministrazioni appaltanti non sono certo al riparo dalle ricadute negative del fenomeno: l’assunzione del rischio connesso alla dilazione dei pagamenti induce infatti i partecipanti ad una gara pubblica a considerare l’onere finanziario che si presume di dover sostenere per il ritardo nei pagamenti nell’ambito del prezzo proposto alla stazione appaltante, con conseguente impoverimento della competitività delle offerte.
Inoltre, l’obbligo di corrispondere gli interessi di mora conseguenti al ritardato pagamento implica l’aumento delle risorse economiche necessarie per il conseguimento delle prestazioni oggetto di appalto (risorse che, come è intuibile, potrebbero essere diversamente e più utilmente investite).
Ed ancora, il ritardo nei pagamenti non incide solo sul contraente privato che si trova a sostenere un’attesa ingiustificata nella percezione dei corrispettivi dovuti da parte dell’amministrazione appaltante, ma ridonda in termini negativi anche sull’indotto a valle dell’appalto, investendo le imprese subappaltatrici e subfornitrici sulle quali i ritardi vengono sovente ulteriormente ribaltati.
In un simile contesto, connotato dal rischio sempre più percepibile di una crisi diffusa della piccola e media impresa, l’impegno profuso dal Governo italiano per affrontare la problematica dei ritardati pagamenti si è riassunto, sino ad ora, nell'adozione dell’art. 9 del D.L. 78/2009, convertito con L. 102/2009.
La norma in questione, emanata nell'ambito del pacchetto varato durante l’estate 2009 per fronteggiare la crisi globale, considera misure rivolte a prevenire la formazione di nuove situazioni debitorie in capo alla P.A., senza tuttavia prevedere termini certi e perentori per l'effettuazione dei pagamenti, né offrire risposte intese a risolvere una prassi (quella dei ritardati pagamenti) oramai strutturalmente inveterata nella gestione delle commesse pubbliche.
Oltre a ciò, l’unica rilevante novità sul fronte del contrasto ai ritardati pagamenti è rappresentata dall’istituto che consente di operare la compensazione dei crediti vantati verso la P.A. (rectium: talune tipologie di P.A.: “regioni, degli enti locali e degli enti del Servizio sanitario nazionale”) con somme dovute all’erario a seguito di iscrizione a ruolo.
A tale proposito, deve considerarsi come altri governi europei, a fronte della gravità della tematica, abbiano invece già assunto iniziative volte ad attenuare (o risolvere) le preoccupazioni degli operatori del settore.
La Spagna, ad esempio, che è considerata - unitamente all'Italia - un paese assai lento in punto di pagamenti, ha già emanato un provvedimento volto ad accelerare il pagamento dei crediti nei confronti della Pubblica Amministrazione (il provvedimento, che entrerà a regime dal 2013, anticipando i contenuti della nuova direttiva, stabilisce che la P.A. avrà trenta giorni per pagare le fatture delle imprese creditrici, senza possibilità di ammettere alcuna deroga).
Ma vi sono altri paesi europei che risultano ancor più virtuosi: in Irlanda il tempo concesso alla P.A. per il pagamento è di soli 15 giorni. In Gran Bretagna il termine è ancora più breve: 10 giorni.
In tale disastrata congiuntura si inserisce la nuova direttiva europea concernente – appunto – il contrasto ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Ad essa guardano gli operatori economici italiani con la speranza che possa dare impulso a quella (ormai improrogabile) opera di ristrutturazione delle insoddisfacenti procedure di pagamento della Pubblica Amministrazione.
2. La vigente normativa nazionale di contrasto al fenomeno dei ritardati pagamenti
Per cogliere i caratteri innovativi della nuova direttiva, occorre anzitutto operare una veloce ricognizione della normativa oggi vigente in Italia.
Al riguardo, si vedrà come l’attuale disciplina in materia di ritardato pagamento dei crediti della Pubblica Amministrazione corra su un doppio binario: da un lato, le norme a tutela delle posizioni attive derivanti dall’esecuzione di contratti pubblici di servizi e forniture, dall’altro quelle afferenti ai contratti di lavori pubblici.
2.1) Contratti pubblici di forniture e servizi
La vigente normativa nazionale di contrasto al fenomeno dei ritardati pagamenti è dettata, per i contratti pubblici di servizi e forniture, dal D.Lgs. 231 del 9 ottobre 2002, che ha dato attuazione all'art. 26 della legge comunitaria n. 39 dell’1 marzo 2002, che a sua volta delegava al Governo italiano l'attuazione della direttiva europea 2000/35/CE (finalizzata alla lotta contro i ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali, ed oggi in via di sostituzione da parte della nuova direttiva).
La disciplina del D.Lgs. 231/2002, nell'intento di arginare il fenomeno dei ritardati pagamenti, prevede, in sintesi:
- la decorrenza automatica degli interessi moratori dal giorno successivo alla scadenza del termine di pagamento, che è fissato - in assenza di diverso accordo - in trenta giorni, senza bisogno di un atto di messa in mora (art. 4);
- la determinazione legale degli interessi moratori in misura pari al saggio di interesse del principale strumento di rifinanziamento della BCE, applicato alla sua più recente operazione di rifinanziamento principale, effettuata il primo giorno di calendario del semestre in questione maggiorato di sette punti percentuali, salvo patto contrario (art. 5);
- il risarcimento dei costi sostenuti per il recupero delle somme non tempestivamente corrisposte, salva la prova del maggior danno (art. 6);
- la nullità di ogni accordo in deroga alle disposizioni del D.Lgs. 231/2002 che risulti gravemente iniquo per il creditore (art. 7);
- il potere del giudice di dichiarare d'ufficio la nullità dell'accordo derogatorio e di modificare il contenuto del contratto applicando i termini legali o riconducendolo ad equità, avendo riguardo all'interesse del creditore, alla corretta prassi commerciale e ad altre circostanze connotanti il caso concreto (art. 7);
- la legittimazione processuale delle associazioni di categoria degli imprenditori presenti nel Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (CNEL) al fine di far accertare la grave iniquità delle condizioni generali concernenti il pagamento delle transazioni commerciali (art. 8).
Le richiamate norme del D.Lgs. 231/2002 riguardano senz'altro anche i contratti tra imprese e Pubblica Amministrazione.
Infatti, le disposizioni di cui trattasi trovano applicazione ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una <>, per tale dovendosi intendere, in base a quanto sancito dall’art. 2, comma 1, lett. a) dello stesso decreto legislativo, “i contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro il pagamento di un prezzo”.
In merito all’operatività della vigente normativa sui ritardati pagamenti nel settore delle commesse pubbliche è recentemente intervenuta anche l'Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici che, rilevata l'erronea o difforme applicazione, da parte della P.A., delle disposizioni de quibus, con la Determinazione del n. 4 del 7 luglio 2010 ha opportunamente osservato come le stazioni appaltanti siano obbligate ad attenersi, nella redazione dei documenti di gara e dei documenti contrattuali attinenti ai contratti pubblici di servizi e forniture, alle disposizioni previste dal D.Lgs. 231/2002 con riguardo ai termini di pagamento, alla decorrenza degli interessi moratori ed al saggio di interessi applicabile in caso di ritardo.
L'intervento dell'Autorità si è imposto quando, a seguito di apposita indagine conoscitiva avviata in esito a diverse segnalazioni, è emerso che presso talune amministrazioni appaltanti era invalsa la prassi di individuare unilateralmente – nella lex specialis di gara o nell'ambito del contratto d'appalto - termini di pagamento e tassi di interesse moratorio derogatori rispetto a quelli previsti dal citato D.Lgs. 231/2002 in danno del contraente privato.
Non è tutto, l'Autorità ha altresì costatato che talune amministrazioni erano solite includere la proposta di termini di pagamento in deroga al D.Lgs. 231/2002 persino tra gli elementi di valutazione delle offerte (premiando, così, con maggiore punteggio, il concorrente che avesse proposto tempi di pagamento più lunghi di quelli normativamente previsti).
Del tutto condivisibilmente, pertanto, l'Autorità di Vigilanza è intervenuta per sanzionare tale discutibile prassi, che andava ad aggravare – con effetti disastrosi nell'attuale congiuntura economica - la situazione delle piccole e medie imprese.
Deve al riguardo evidenziarsi come la natura imperativa e non derogabile delle prescrizioni recate dal D.Lgs. 231/2002 sia stata posta in rilievo anche dalla giurisprudenza amministrativa. Sul presupposto che tali norme rappresentino diretta emanazione della direttiva comunitaria 2000/35/CE, infatti, il Consiglio di Stato ha ritenuto senz’altro invalide le clausole del bando e del conseguente contratto che prevedevano termini di pagamento, decorrenza degli interessi e relativo tasso, difformi rispetto a quanto sancito dagli artt. 4 e 5 del D.Lgs. 231/2002.
Infine, l’applicabilità delle disposizioni recate dal D.Lgs. 231/2002 ai contratti pubblici di servizi e forniture è stata ribadita anche dal nuovo Regolamento di Attuazione del Codice dei Contratti Pubblici (D.P.R. n. 207 del 5 ottobre 2010, che entrerà in vigore l’8 giugno 2011), il cui art. 307, comma 2, sancisce che: “I pagamenti sono disposti nel termine indicato dal contratto … Nel caso di ritardato pagamento resto fermo quanto previsto dal decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231”.
Il richiamo così operato dal Regolamento potrebbe apparire pleonastico, essendo pacifica l’applicabilità del D.Lgs. 231/2002 agli appalti pubblici di servizi e forniture. Tuttavia, è probabile che lo stesso vada inteso proprio quale ulteriore affermazione dell’antigiuridicità delle clausole derogatorie inserite nei bandi e nei contratti (prassi che, come si è appena visto, è stata infatti oggetto di espressa censura sia da parte dell’Autorità di Vigilanza che del Giudice Amministrativo).
2.2) Contratti pubblici di lavori
Per quanto attiene ai contratti pubblici di lavori, le norme che impongono il tempestivo pagamento dei crediti che l’impresa appaltatrice vanta nei confronti della committenza pubblica vanno individuate nel Capitolato Generale delle Opere Pubbliche approvato con D.M. n. 145 del 19 aprile 2000 (le cui disposizioni sono oggi in gran parte confluite nel D.P.R. 207/2010, nuovo Regolamento di Attuazione del Codice dei Contratti Pubblici).
Il D.M. 145/2000 ha fissato infatti una puntuale tempistica per il pagamento di acconti e saldo maturati nell’esecuzioni dei lavori pubblici (art. 29) e dispone altresì in ordine all’entità degli interessi da corrispondere in caso di ritardato pagamento (art. 30).
Nel dettaglio, è previsto che, a partire dalla maturazione di ogni stato di avanzamento dei lavori, il termine per l’emissione dei certificati di pagamento relativi agli acconti non possa superare i quarantacinque giorni. Una volta emesso il certificato, il pagamento deve essere disposto mediante specifico ordine (mandato di pagamento) entro i trenta giorni successivi.
Ove il certificato venga emesso oltre i quarantacinque giorni suddetti, vanno riconosciuti all’appaltatore gli interessi corrispettivi al tasso legale sulle somme dovute. Se il ritardo supera i sessanta giorni, dovranno essere corrisposti dal giorno successivo gli interessi moratori.
Qualora il pagamento sia effettuato oltre i trenta giorni dalla data di emissione del certificato, gli interessi legali scattano dal giorno successivo fino al sessantesimo giorno di ritardo, data a partire dalla quale sono dovuti gli interessi di mora.
Per quanto concerne il pagamento della rata di saldo il Capitolato Generale prevede, invece, un termine di novanta giorni successivi all’emissione del certificato di collaudo provvisorio ovvero del certificato di regolare esecuzione, a sua volta da emettersi rispettivamente entro sei mesi ed entro tre mesi dall’ultimazione dei lavori.
Il saggio degli interessi di mora applicabile ai ritardati pagamenti afferenti ai lavori pubblici è annualmente determinato con apposito decreto ministeriale, ed è comprensivo del maggior danno ai sensi dell’art. 1224, comma 2, del Codice Civile.
Anche tali disposizioni – al pari di quelle operanti nel settore forniture e servizi – non sono suscettibili di deroghe in danno dell’appaltatore. È infatti previsto che i capitolati speciali e i contratti possano stabilire termini di pagamento solamente “inferiori” a quelli normativamente prescritti, e dunque più favorevoli per il contraente privato.
È evidente, dall’esame delle disposizioni succitate, che la disciplina normativa in tema di ritardato pagamento nei lavori pubblici (dettata dai richiamati artt. 29 e 30 del D.M. 145/2000) sia obiettivamente meno favorevole per l’appaltatore di quella sancita dal D.Lgs. 231/2002.
Infatti, i termini di decorrenza degli interessi moratori previsti per i lavori pubblici sono notevolmente più lunghi di quelli operanti nei settori dei servizi e delle forniture. E, soprattutto, il saggio di interesse da applicare è considerevolmente più basso.
Pertanto numerosi sono stati, anche in dottrina, i tentativi di argomentare l’inclusione del settore dei lavori pubblici nell’operatività della sopravvenuta disciplina in materia di servizi e forniture.
Tuttavia, si è quasi subito registrato, sul punto, l’orientamento negativo espresso dall’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici che, con la Determinazione n. 5 del 27 marzo 2002, ha respinto la possibilità di ritenere applicabile, agli appalti di lavori pubblici, la direttiva 2000/35/CE, “dato che il suo ambito è limitato ai pagamenti effettuati a titolo di corrispettivo per le transazioni commerciali fra imprese e fra imprese e pubblica amministrazione, laddove per transazioni commerciali si intendono i contratti che <<comportano la consegna di merci o la prestazione di servizi contro pagamento di un prezzo>>. Si ritiene che l'ipotesi di una applicazione estensiva della direttiva agli 29 e 30 del DM 145/2000 non sia percorribile, in quanto se da un lato per interpretazione estensiva si intende l'accoglimento di un significato che si estende fino ai limiti massimi della portata semantica, secondo l'uso linguistico generale, dell'espressione da interpretare, dall'altro si ricorre al procedimento analogico nel caso di lacuna dell'ordinamento”.
Donde la dicotomia tra la (più debole) tutela riconosciuta al creditore della P.A. nel settore lavori pubblici e quella operante per i servizi e le forniture (più forte e di matrice comunitaria).
3. La nuova direttiva di contrasto ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali ed il suo recepimento nell’ordinamento italiano
La nuova direttiva relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (2011/7/UE del 16 febbraio 2011, pubblicata sulla G.U.U.E. L 48/1 del 23.2.2011) è stata approvata dal Parlamento europeo il 20 ottobre 2010, e dal Consiglio dell’Unione Europea nella seduta del 24 gennaio 2011.
Essa si prefigge espressamente di apportare modifiche sostanziali alla precedente direttiva 2000/35/CE (anch’essa, come si è visto, finalizzata alla lotta contro i ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali), ritenendo perciò “opportuno, per motivi di chiarezza e di razionalizzazione, procedere alla rifusione di tali disposizioni”.
Nella sostanza, quindi, al momento della sua entrata in vigore, la nuova direttiva 2011/7/UE abrogherà e sostituirà la direttiva 2000/35/CE, riproponendo gran parte delle disposizioni già a suo tempo introdotte da quest’ultima, e affiancando ad essere nuove prescrizioni.
Ne consegue anzitutto, ed evidentemente, che le norme recate dalla nuova direttiva, che abbiano riproposto senza modifiche disposizioni della direttiva 2000/35/CE, risultano di fatto già recepite nell’ordinamento italiano, almeno per quanto concerne i settori dei servizi e delle forniture, per mezzo del citato D.Lgs. 231 del 9 ottobre 2002.
Per quanto concerne, invece, le disposizioni dotate di carattere innovativo (poiché modificative delle disposizioni già dettate dalla direttiva 2000/35/CE, o perché non contenute in quest’ultima e dunque del tutto nuove) si imporrà al legislatore italiano di compiere il relativo recepimento provvedendo, ad esempio, alla modificazione del D.Lgs. 231/2002 nella parte non più compatibile con le sopravvenienze della nuova direttiva (e dunque mediante l’abrogazione delle norme non più compatibili, e l’introdurre delle richieste modifiche sostanziali).
Per quanto concerne il termine per il recepimento della nuova direttiva, esso risulta fissato in due anni dalla data di entrata in vigore della stessa. L’entrata in vigore, a sua volta, è prevista per “il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea”.
Ne consegue, dunque, l’obbligo per gli Stati membri di adeguare la propria normativa interna al dettato della direttiva entro due anni e venti giorni dalla data della sua pubblicazione (cioè entro il 16 marzo 2013).
Deve evidenziarsi, al riguardo, che la nuova direttiva reca norme attributive di posizioni di vantaggio sufficientemente puntuali e dettagliate da potersi ritenere auto-applicative.
Pertanto, è possibile ritenere che le disposizioni in commento potranno trovare autonoma ed immediata applicazione, nei confronti della Pubblica Amministrazione, anche ove il legislatore nazionale non dovesse tempestivamente attuarne il recepimento.
Ciò posto, al fine di misurare il potenziale impatto della nuova direttiva 2011/7/UE sull’ordinamento nazionale italiano, occorre individuare le disposizioni della stessa che paiono rivestire carattere innovativo.
Sotto tale aspetto, e per quanto concerne i pagamenti della Pubblica Amministrazione, si segnalano di seguito tre profili di rilevante novità.
3.1) Previsione di un limite massimo alla facoltà di estensione del termine di pagamento
Occorre prendere in considerazione l’art. 4 della direttiva, afferente a: “Transazioni fra imprese e pubbliche amministrazioni”.
La disposizione, analogamente a quanto già previsto dalla direttiva 2000/35/CE, fissa in trenta giorni naturali e consecutivi il termine di pagamento dei crediti della P.A..
Tuttavia, mentre la direttiva 2000/35/CE consentiva la deroga pattizia del termine di pagamento ammettendo, in astratto, la possibilità di qualunque dilazione, con l’unico limite – da valutare caso per caso – di un accordo che risulti “gravemente iniquo per il creditore”, l’art. 4, comma 6, della nuova direttiva impone agli Stati membri di assicurare che “il periodo di pagamento stabilito nel contratto non superi il termine di cui al paragrafo 3 [trenta giorni], se non diversamente concordato espressamente nel contratto e purché ciò sia oggettivamente giustificato dalla natura particolare del contratto o da talune sue caratteristiche, e non superi comunque sessanta giorni di calendario”.
Inoltre, l’art. 4, comma 4, sancisce che il termine di trenta giorni fissato dal terzo comma dello stesso articolo possa essere esteso dagli Stati membri in sede di recepimento, ma solamente “fino ad un massimo di sessanta giorni di calendario” .
Viene in tal modo ad essere normativamente fissato un preciso limite numerico alla facoltà di estendere il termine di pagamento: in nessun caso potrà risultare tempestivo un pagamento effettuato dalla P.A. decorso il sessantesimo giorno dal dies a quo individuato dalla direttiva.
3.2) Aumento del tasso degli interessi moratori
Ad ulteriore rafforzamento della tutela del creditore, la nuova direttiva aumenterà di un punto percentuale il saggio degli interessi moratori da riconoscere in suo favore in caso di ritardato pagamento.
3.3) Applicabilità della nuova direttiva al settore dei lavori pubblici
La più eclatante novità recata dalla nuova direttiva sembrerebbe, però, essere la sua applicabilità al settore dei lavori pubblici (laddove la “vecchia” 2000/35/CE, come si è visto, incideva solamente sulle forniture ed i servizi).
Infatti, sebbene la formale definizione del campo di applicazione della direttiva sui ritardati pagamenti non sembri mutata , nel senso di un’estensione della sua operatività all’ambito dei lavori pubblici parrebbe espressamente deporre l’undicesimo considerando, in base al quale: “La fornitura di merci e la prestazione di servizi dietro corrispettivo a cui si applica la presente direttiva dovrebbero anche includere la progettazione e l'esecuzione di opere e edifici pubblici, nonché i lavori di ingegneria civile”.
Si tratterebbe di un’innovazione di non poco momento, atteso che la vigente disciplina dei ritardati pagamenti nei lavori pubblici è certamente meno favorevole per l’appaltatore di quella operante nei settori dei servizi e delle forniture (infatti, come si è visto innanzi, gli artt. 29 e 30 del D.M. 145/2000, confluiti senza sostanziali modifiche negli artt. 143 e 144 del nuovo Regolamento di attuazione del Codice dei Contratti Pubblici, D.P.R. 207/2010, prevedono interessi moratori ad un tasso nettamente inferiore e meno satisfattivo di quello già oggi riconosciuto dal D.Lgs. 231/2002, nonché termini di maturazione degli stessi interessi considerevolmente più lunghi).
Ne deriverebbe, pertanto, l’equiparazione delle tutele normative approntate in favore del creditore della P.A., e l’auspicabile superamento di quel “doppio binario” che aveva caratterizzato la disciplina dei ritardati pagamenti per i diversi settori della contrattualistica pubblica.
Del resto, ove si assistesse, anche in occasione della nuova direttiva, all’esclusione dei lavori pubblici dalle più penetranti tutele previste a livello comunitario, si incorrerebbe nell’accentuazione di una disparità di trattamento – in danno dell’esecutore dei lavori pubblici – che già oggi appare arduo giustificare.
Inoltre, l’estensione dell’efficacia della direttiva de qua al settore dei lavori pubblici sembra anche più coerente con le modalità attraverso le quali sono state introdotte le più recenti disposizioni comunitarie sui contratti pubblici.
Ed infatti, mentre l’iniziale approccio comunitario alla materia era caratterizzato da “compartimenti stagni” , le ultime direttive sui contratti pubblici (da cui è scaturito il nostro Codice nazionale, D.Lgs. 163/2006) hanno inteso trattare la materia in modo unitario .
Sarebbe perciò alquanto condivisibile se le norme afferenti ai ritardati pagamenti nei tre settori della contrattualistica pubblica (lavori, servizi e forniture) venissero ad essere uniformate, così come è stata unificata, per gli stessi tre settori, la disciplina delle procedure di affidamento dettata a livello comunitario.
Sul piano del recepimento della direttiva, ove si dovesse ritenere che la stessa investa anche il settore dei lavori (come sembra più probabile, anche se il precetto formulato dall’Unione Europea appare, se non ambiguo, almeno timido), dovranno essere evidentemente modificati gli articoli 143 e 144 del D.P.R. 207/2010 (nei quali sono stati trasposti gli artt. 29 e 30 del D.M. 145/2000) in modo tale da adeguarli alla disciplina sancita dalla fonte comunitaria, più favorevole per l’appaltatore.
Ne deriverebbe, quindi, un consistente incremento degli interessi moratori da riconoscere all’esecutore di lavori pubblici in caso di ritardato pagamento dei corrispettivi dovuti, ed una significativa anticipazione del momento di decorrenza degli interessi medesimi.
4. Riflessioni conclusive: la nuova direttiva potrà seriamente incidere sulla situazione dei ritardati pagamenti in Italia?
Le nuove norme introdotte con la direttiva 2011/7/UE in relazione ai ritardati pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione sostanziano, per quanto concerne i settori dei servizi e delle forniture, un rafforzamento di tutele già operanti nell’ordinamento nazionale.
Un più importante impatto, sul piano del contrasto al ritardo nei pagamenti della P.A., si registrerebbe nel caso in cui le disposizioni dettate sul punto dall’Unione Europea venissero estese al settore dei lavori pubblici, finora affidato a normative di matrice nazionale che hanno assicurato un livello di tutela del creditore sensibilmente meno efficace di quello previsto dalle direttive comunitarie.
In ogni caso, trattasi di innovazioni che devono essere accolte benignamente, in quanto intese a migliorare la fosca situazione dei ritardati pagamenti in Italia e, quindi, a corroborare la competitività della piccola e media impresa proprio nel momento in cui le congiunture economiche globali rischiano maggiormente di comprometterne la sopravvivenza.
Tuttavia, se ci si pone l’interrogativo in merito alla reale possibilità di conseguire, attraverso la direttiva in rassegna, l’obiettivo di una radicale soluzione del problema dei ritardati pagamenti, l’esame del provvedimento nel suo complesso, ed il paragone tra le sue disposizioni innovative e quelle già operanti nel sistema nazionale, inducono ad esercitare un certo scetticismo.
In effetti, per quanto concerne il mercato dei servizi e delle forniture, la normativa di recepimento della precedente direttiva di contrasto ai ritardati pagamenti (D.Lgs. 231/2002, di recepimento della direttiva 2000/35/CE) prevede già la decorrenza automatica degli interessi moratori dal giorno successivo alla scadenza del termine di pagamento, fissato - in assenza di diverso accordo - in trenta giorni, e senza bisogno di uno specifico atto di messa in mora.
Inoltre, i tassi di interesse moratorio previsti dalla normativa oggi vigente sembrano sufficientemente elevati da sostanziare un adeguato deterrente nei confronti del debitore.
Si tratta, peraltro, di disposizioni (quelle recate dal D.Lgs. 231/2002) che certamente trovano già inderogabile applicazione nei rapporti con la Pubblica Amministrazione (si veda, sul punto, la già citata Determinazione n. 4 del 7 luglio 2010 dell’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici).
Eppure, nonostante le tutele normative attualmente operanti negli appalti di servizi e forniture non si rivelino così blande se paragonate a quelle che saranno introdotte con la nuova direttiva 2011/7/UE, è proprio in tali settori che la problematica dei ritardati pagamenti è emersa con maggiore evidenza, assumendo proporzioni allarmanti (il ritardo medio nell’adempimento dell’obbligazione di pagamento, proprio nell’ambito dei servizi e delle forniture, è infatti mediamente quattro volte superiore al tempo imposto dalla normativa attuale).
Ciò considerato, può dunque nutrirsi il sospetto che la preoccupante situazione italiana non sia eziologicamente correlata ad una deficienza di strumenti normativi idonei a tutelare il creditore della P.A., quanto, piuttosto, ad un’aberrazione di tipo culturale, che si concreta, dal punto di vista del creditore, nella rassegnazione ad un’attesa di pagamento abnorme ed ingiustificata, e, da quello del debitore, nel postulare il pagamento tardivo come prassi oramai inveterata nel sistema delle commesse pubbliche e private.
Se le cose stanno in questi termini, lo sforzo che l’Unione Europea ci chiede di compiere con l’adozione della direttiva in esame sembra doversi indirizzare non tanto (o non solo) verso il rafforzamento, sul piano tecnico-normativo, degli strumenti di contrasto al ritardo nei pagamenti, ma soprattutto nel recepimento dei richiami teleologici e di principio che di tali strumenti sono il presupposto, e che hanno trovato una puntuale esplicitazione nel corpo della stessa direttiva.
Non dovrebbe dunque lasciarsi cadere nel vuoto l’invito del legislatore comunitario a compiere “un passaggio deciso verso una cultura dei pagamenti rapidi”.
Quella che si impone, infatti, appare soprattutto una crescita di tipo culturale, attraverso la diffusione della buona prassi del pagamento tempestivo.
E a corredo dell’adozione di misure volte ad incentivare tale prassi, dovrebbero al contempo attuarsi gli indirizzi della direttiva in termini di effettività della tutela giurisdizionale del creditore, senza la quale i richiami alla tempestività dei pagamenti rischiano di rimanere affermazioni volatili e prive di coercibilità. Infatti, come condivisibilmente affermato dal considerando n. 33 della direttiva: “le conseguenze del pagamento tardivo possono risultare dissuasive soltanto se accompagnate da procedure di recupero rapide ed efficaci per il creditore”.
Sarebbe dunque auspicabile che il legislatore nazionale, dovendo recepire ed attuare la direttiva in commento, cogliesse l’occasione per attuare anche quella profonda revisione del processo civile che a gran voce viene richiesta da tutti gli operatori economici, sì da consentire il rapido e certo recupero delle somme non corrisposte e degli interessi maturati in ragione del ritardato od omesso pagamento.
Alessandro Bonanni
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